Ci sono almeno sei possibili film che si incrociano in Chien de la casse, esordio di Jean-Baptiste Durand premiato con due César (correva per otto statuette: niente male per un’opera prima). C’è il buddy movie fondato su due uomini complementari (l’uno che prevarica e l’altro che soccombe, forse) pronto a rivelarsi un bromance (che è una cosa seria e di non facile gestione per tutto ciò che inevitabilmente sottende un’amicizia tra maschi). C’è, di conseguenza, una riflessione sulla mascolinità contemporanea, su come sopravvivere ai modelli costituiti e come sganciarsi dalle derive più tossiche che imperano soprattutto nei contesti meno illuminati. C’è quindi il racconto di un paesaggio, che va da sé corrisponde a un orizzonte emotivo, una provincia deprimente e sonnacchiosa in cui non accade niente e in quel niente si configura tutto un mondo (di limiti, abitudini, convenzioni, trappole).
C’è la forza tempestosa dell’amore, che travolge, stravolge e fa prigionieri, dove il threesome è un’ipotesi solo sulla carta. C’è il rapporto tra uomini e animali, un cane nella fattispecie, a cui il titolo fa riferimento con tutto il suo portato metaforico (si potrebbe tradurre con “cane da discarica” o, meglio, “da sfasciacarrozze”). E c’è la parabola di formazione, dove tutto costringe (il finale lo esplicita) all’accesso in un’altra fase della vita, dagli ultimi fuochi di un’adolescenza en plein air tra pigrizia e mestizia a un’età adulta che impone l’occupazione di uno spazio che magari non è (ancora) quell’elettivo posto nel mondo ma è sicuramente la stazione di un viaggio. (Cinematografo.it)